Imparare, si sa, è questione di vita. L’essere umano, così come tutti gli altri viventi (anche i non- animali), nel corso della sua storia ha imparato molto. Il motivo è semplice: l’alternativa è la morte. Imparare, dunque,  possiamo affermare essere uno dei cardini della vita, se non il più importante. Imparare, inoltre, implica il cambiamento: non è possibile imparare senza cambiare. E una delle differenze principali tra ciò che è vivo e ciò che è non-vivo è proprio la capacità di cambiamento. Imparare è fondamentale per vivere, nulla di nuovo. Basti pensare a un bambino appena nato e di come la sua vita e la relazione con gli altri e con il mondo stesso cambi radicalmente attraverso l’apprendimento. Imparare è un processo naturale. Ma c’è modo e modo.

Con John Dewey, pedagogista americano che visse a cavallo tra l’800 e il ‘900, viene posta nero su bianco la teoria secondo la quale per apprendere non è necessario, anzi spesso è dannoso e inutile (riprodurre meccanicamente ciò che l’insegnante espone durante la lezione), ma è fondamentale basare l’intero processo di apprendimento sull’esperienza diretta dello scolaro, che si pone necessariamente al centro del processo e pone invece il professore in una posizione laterale, pur sempre fondamentale, di facilitatore del processo stesso. Tutto questo si chiama Attivismo, sottolineando la necessaria attività del discente che fino a quel punto era considerato esclusivamente un ricettore passivo.

Ben prima di Dewey però fu fondamentale il Metodo Scientifico per indagare la realtà, tra i cui esponenti non possiamo non citare Galilei.

Dopo secoli di accettazione passiva della realtà, così come era scritta nella Bibbia, fu necessaria una vera e propria rivoluzione intellettuale per comprendere e accettare un nuovo modo di vedere le cose, partendo questa volta dall’esperienza. L’esperienza, quindi, è elemento fondamentale e di base per un apprendimento che è possibile definire significativo, ovvero applicabile concretamente e nel tempo. Quelli citati sono solamente due esempi, forse i più famosi, di come la necessità di concretezza abbia caratterizzato da sempre il desiderio umano della scoperta.

Nel corso degli anni, da Dewey in poi, diversi autori hanno posto le basi teoriche per metodologie  di apprendimento basate sull’esperienza diretta: pensiamo, tra gli altri, a Montessori e Claparède che hanno rivoluzionato di fatto il modo di fare scuola, e più in generale di pensiero, in Europa e quindi in Italia. Non possiamo, a Torino, non fare riferimento a un grande educatore quale don Giovanni Bosco, che ha strutturato il suo intero sistema pedagogico, il metodo preventivo, sulle costruzione di laboratori dove i ragazzi potessero apprendere il fare pratico.

In ordine cronologico, tra gli ultimi autori che stanno portando avanti un importante rinnovamento didattico, troviamo Sams e Bergmann, docenti statunitensi e creatori di quella che viene definita Flipped Classroom, classe capovolta.

 Se quella presentata fino a ora è una romanticissima storia d’amore tra l’esperienza e la conoscenza, purtroppo la realtà sembra essere molto distante da Dewey, Montessori, Claparede, Bergmann, Sams e tanti altri. Ma è solo questione di tempo, si spera. Infatti, diverse realtà si stanno interrogando su come mettere in pratica, anche in grossa scala e non solo sperimentalmente, la strada che i grandi autori di cui sopra ci hanno spalancato.

I metodi per fare didattica non mancano e la base comune è sempre la stessa, neanche a dirlo: l’esperienza. Cambiano le modalità, piuttosto, in cui gli studenti possono concretamente toccare la realtà. La maggior parte dei modelli didattici, in ogni caso, prevede l’alleanza del gruppo. Per natura, in effetti, gli esseri umani vivono di relazione con gli altri: a lavoro, in famiglia, nello sport, nel tempo libero, ecc. L’unico momento in cui la relazione con i pari sembra essere bandita è paradossalmente la scuola, dove invece deve essere imbastita una competizione malsana per essere il più bravo della classe.

Miscelando relazione ed esperienza si possono ottenere diversi approcci didattici: la peer education, il cui centro risiede nella competenza altrui e la correzione del pari risulta essere più efficace di quella dell’insegnante; la complex instruction, che pone l’accento sulle qualità di ogni studente e sul suo ruolo svolto nella dinamica gruppale; la didattica per problem solving, che chiede al gruppo di utilizzare le competenze e le conoscenze di ciascun membro per risolvere un problema reale; la didattica laboratoriale, che come indica il nome stesso si concentra invece sul vissuto diretto dell’esperienza stessa per giungere al concetto teorico e più in generale il cooperative learning, ovvero l’apprendimento cooperativo.

Le basi teoriche di ciascuna strategia sono già state illustrate negli articoli precedenti. Il focus, invece, si pone sul binomio relazione-esperienza attraverso il quale la conoscenza acquista un significato differente, concreto.

D’altronde, come già scritto, non c’è nulla di nuovo in tutto questo: l’essere umano possiede per natura questa capacità di approccio. Ma nonostante questo, nonostante l’agire naturale dell’essere umano, nonostante la scienza, nonostante le esperienze, a scuola di preferisce fare in un altro modo.

Autore: Alessio Salpietra,  Pedagogista

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